giovedì 7 febbraio 2008

discussione sull'arte

non c'è dubbio che certi sperimentalismi esasperati praticati nel secolo appena trascorso (sperimentalismi che oggi ci appaiono spesso niente più che manifestazioni di assenza di idee e di contenuto se non di totale mancanza di talento), richiedano almeno un tentativo di fare chiarezza, di ricondurre il senso del fare arte in una prospettiva di serietà e di impegno. In questo senso ho scelto di definire i vari modi di esercitare l'arte discipline artistiche, proprio per sottilineare la necessità che la pratica dell'arte deve rispondere innanzitutto a una disciplina, ossia all'esigenza di acquisire un mestiere con un tirocinio (anche duro e difficile) attraverso il quale ciascuno trova il proprio linguaggio personale. In altre parole, chi vuol fare arte deve diventare in primo luogo un artigiano capace, dopodiché, se avrà talento, potrà essere un artista, grande o piccolo si vedrà. E questo per riaffermare una volta per tutte un concetto che si trascura da tempo in nome del falso mito della creatività istintiva (cioè che il talento, per esprimersi, deve necessariamente affidarsi al mestiere).
Ma che dire a proposito di dove siamo arriv
ati con gli sperimentalismi nati da quella malintesa necessità di andare oltre il già visto e il già provato che, da un certo momento in poi, ha informato gran parte delle (si fa per dire) arti (non solo figurative)? Tanto per fare un esempio, in questo momento ho sott'occhio il catalogo di una mostra di "Arte americana" tenuta nel (già) lontano 1992 al Lingotto di Torino. Ricordo perfettamente l'impressione provata durante quella visita. Accanto ad autori ed opere di pregio (tra gli altri, figuravano Ben Shahn, George Tooker, Andrew Wyeth) erano esposti un assembramento di tubi fluorescenti (titolo "Luce fluorescente bianca"), una serie di cassetti di rame appesi a una parete ("Untitled"), un cappello, la fotografia del cappello e la definizione stampata del cappello ("One and Three Hats"), tre fili di piombo in forma serpentina ("Lead Pipe") ecc. Quello che, in quell'occasione, lasciava di stucco era proprio la disinvoltura con cui i curatori della mostra, accanto ad artisti "veri", esponessero lavori molto discutibili come quelli da me citati. Non parliamo poi di ciò che ci viene ammannito da un po' di tempo a questa parte alle Biennali veneziane... Con questo dove voglio arrivare? Voglio dire che la cosa veramente sconcertante è che oggi i nostri critici d'arte sembrano malati di schizofrenia quando, per esempio, vanno (e giustamente!) in brodo di giuggiole allorché parlano della mostra di un grande del passato (ricordo alcune mostre viste negli anni recenti, come una di Van Dick a Genova e una di Caravaggio a Firenze, entusiasticamente recensite da molti critici), ma poi elogiano anche (sia pure, talvolta, con reticenza) certe mostre di autori simili a quelli che avevano prodotto i tubi fluorescenti o i cassetti nella mostra americana. C'è, insomma, qualche critico d'arte, oggi, da qualche parte, che abbia il coraggio di dire, davanti a certi prodotti che circolano ancora troppo numerosi nelle gallerie d'arte, Basta con queste imposture (o porcherie o pagliacciate) ?
Per ora mi fermo qui, perché vorrei già sentire qualche parere riguardo a quanto ho detto finora. Mi piacerebbe ritrovare l'articolo di cui ho parlato all'inizio, quello del Falò per il moderno, perché sarebbe sicuramente una buo
na base di partenza per avviare una discussione sullo stato (o, se preferite, sulla salute) dell'arte nei giorni nostri, ma purtroppo, benché sappia di averlo conservato da qualche parte, non mi ricordo più dove. Se lo troverò, lo pubblicherò senz'altro. Ma intanto, vorrei sentire qualcuno che dicesse la sua su questa questione.
Che cosa mi propongo con questo sfogo? Di lanciare una sorta di rappel à l'ordre, come quelli già visti in passato? Ebbene, credo che la mia intenzione sia proprio questa. Credo sia proprio arrivato il momento di dire con forza che l'arte deve tornare ad essere una cosa seria e importante, una cosa sublime, come si diceva una volta, che faccia vibrare l'anima e i sensi, il cuore e la mente. C'è qualcuno che voglia raccogliere il mio appell
o?


Ecco due esempi tratti dal catalogo della mostra americana di cui sopra, dai quali si evidenzia la differenza che esiste, secondo me,
tra prodotto artistico vero (il quadro di Tooker "The subway") e l'impostura (l'opera designata "Untitled").












Finalmente ho r
itrovato l'articolo intitolato "Un falò per il moderno. E' del 1993, è firmato da Stefano Malatesta ed è un'intervista a Jean Clair, pseudonimo di Gèrard Regnier, conservatore del Musèe d'Art Moderne del Centre Pompidou di Parigi. Ne pubblico ampi stralci, che commenterò alla fine. L'articolo esordisce così:
"Nel 1983 Jean Clair pubblicò un saggio che era un attacco all'avanguardia artistica, al vuoto che rappresentava e agli interessi (cioè al circuito mercante - critico - sovrintendente) che erano dietro alla modernità, alla frenesia nella costruzione di nuovi musei e più in generale al contemporaneo culto acritico delle opere di arte moderna come una nuova religione in sostituzione di quella vecchia. Il saggio, intitolato Critica della Modernità, suscitò un certo scalpore e Clair fu rimproverato, in qualche caso sbeffeggiato e tacciato di oscurantismo e di essere un critico reazionario. Molto pessimistico sullo stato delle belle arti, nei capitoli finali il saggio si lasciava andare a qualche speranza. Dopo la grande glaciazione degli anni '60 e '70, Clair intravedeva un certo numero di artisti che tornavano al disegno o comunque ad una paziente riconquista di un mestiere abbandonato. Dal 1983 sono passati dieci anni, ma il panorama generale non sembra migliore di allora. Robert Hughes, il critico del settimanale Time, uno dei più attenti saggisti del moderno e del contemporaneo, ha scritto che questi ultimi sono stati i peggiori anni della nostra vita: inflazione del mercato, vittoria della pubblicità sulla conoscenza, il glamour artistico artefatto. "Non si sono mai visti tanti artisti in giro, così tanta arte che cerca di richiamare l'attenzione, così tante pretese gonfiate, così scarso senso della misura".
(Segue la conversazione con Clair):
"Io vedo che rispetto a dieci anni fa la situazione è cambiata" dice Clair. "C'è effettivamente stato un ritorno alla pittura, anche se non sempre alla buona pittura".
Se uno dovesse fare un paragone tra questa fine di secolo e quella del secolo precedente... Cent'anni fa c'erano, tra gli altri, Cézanne. Monet, Seurat, Degas, Matisse, Van Gogh, Gauguin, Munch, Rodin.
"E' difficile giudicare un periodo quando ancora lo si sta vivendo. Però i metri di giudizio, una volta così perentori e severi, sono cambiati. Dieci anni fa, quando feci al Beaubourg la mostra di Lucian Freud, venni demolito da quasi tutta la stampa perché avevo osato proporre un pittore che si credeva accademico, con l'aggravante del figurativo. Ora sono in pochi a non riconoscere in Freud un grande artista".
La scuola inglese, da Bacon a Freud, ad Auerbach, a Kitaj...
"Già, la scuola di Londra, di una grande tradizione figurativa, profondamente inglese. Una volta, parecchio tempo fa, ho scritto un articolo sulla scuola di Londra. E subito mi hanno dato le bacchettate sulle mani: "Sei completamente matto, non esiste una scuola di Londra, non più di quanto esista una scuola di Parigi" E io insistevo che ci sono state diverse storie d'arte comtemporanea, legate ai luoghi e alle loro tradizioni. Visitare i musei, prima che le collezioni venissero uniformate secondo un criterio definito "internazionale" come se la storia dell'arte fosse come la Repubblica, una e indivisibile, era uno straordinario piacere. Andare in un certo museo dei Paesi Bassi, verso la fine degli anni '50, era ancora un'esperienza piena d'insegnamento perché si potevano vedere delle opere che non avevano nulla a che fare con quelle che contemporaneamente venivano esposte al Musée d'Art Moderne di Parigi"... Clair tira fuori dalla cartella l'ultimo numero di una rivista in lingua tedesca: "E' un numero speciale su Balthus, la prima volta che esce in tedesco un saggio che si pone il problema della modernità di Balthus. Qualche anno fa un mio libro su Balthus ha venduto meno di cinquecento copie: nessuno, in Germania, lo prendeva sul serio. Era visto come un eccentrico accademico che non rientrava nei canoni della modernità tedesco-americana, un'arte dominata dagli schemi teorici americani".
Ricordo una sua tesi un po' audace: come per la politica, anche per l'arte ci sarebbe stata, nel secondo dopoguerra, una strategia americana indirizzata ad imporre la propria ideologia e a fare di New York il nuovo centro mondiale dell'arte, in sostituzione di Parigi.
"Gli americani volevano dimostrare ai russi e agli europei che gli Usa erano una nazione potente anche culturalmente. Avevano tra le mani l'espressionismo astratto: negli anni '50, attraverso una serie di esposizioni internazionali, lo fecero passare per l'unico movimento importante nato nel dopoguerra, agendo in modo più attivo in quei paesi che erano appartenuti all'Asse e che la Russia guardava con interesse: la Germania, l'Austria, ma anche l'Italia. Così il figurativismo venne, in questi paesi, assimilato al realismo dei regimi totalitari; l'astrazione, in compenso, divenne un'arte ufficiale, che garantiva carta bianca, ideologicamente, a coloro che la praticavano. Adesso cosa resta della grande avanguardia americana del dopoguerra, a parte Pollock o forse due o tre altri? Nulla. E quello che è venuto dopo è stato peggio".
Lei non mi pare molto d'accordo sulla storia canonica dell'arte che si fa del Novecento, come una linea da Cézanne a Pollock.
"Oggi si può vedere come sia appunto una storia canonica: monotona, monocorde, monodirezionale, che non si è resa conto della complessità dei movimenti, delle scuole, dei luoghi. Di questa storia l'arte italiana ne ha fatto le spese, in particolare l'arte tra le due guerre: abbandonata, ignorata, disprezzata. Chi parlava, fino a qualche tempo fa, di Sironi, o di Marini, uno dei grandi scultori del secolo? Sono sempre rimasto colpito da come anche De Chirico sia stato giudicato in Francia: solo in rapporto al surrealismo, in rapporto ad André Breton. E Savinio, che pure ha vissuto a Parigi per dieci anni, in Francia continua ad essere uno sconosciuto".
Lei ha un forte senso della cultura europea, in particolare della cultura visiva figurativa. Non le piacciono molto gli artisti astratti e detesta l'avanguardia...
"Io ce l'ho con una certa avanguardia confortata da una critica, per lo più inetta, nell'idea di incarnare una legittimità rivoluzionaria, mentre è solo una cuccagna per un mercato che trova in essa dei prodotti labili e quindi facilmente rinnovabili, come i detersivi. Ce l'ho con questa avanguardia perché ha significato la distruzione di un'enorme conoscenza accumulata nei secoli, conoscenza che aveva permesso alla pittura di diventare un'arte straordinariamente complessa, di un'incredibile ricchezza tecnica, per la prospettiva, il colore, la chimica, l'anatomia. La grandezza dell'arte sta anche nella complessità della tecnica che viene utilizzata... Picasso, come Matisse, ha potuto liquidare un'eredità perché questa eredità ce l'aveva. Ma chi non ha mai disegnato, chi non ha mai fatto studi di anatomia o di prospettiva, che eredità liquida? Così si vedono nelle scuole di Belle Arti dei professori che trasmettono il vuoto, un vuoto semantico, un vuoto tecnico e il concetto trasmesso da artisti fasulli per i quali tutto è arte... E si fanno musei-fortezza che ospitano mostre terrificanti. I musei sono diventati come i deserti, avanzano dove si ritira la vita. E pensare che l'avanguardia storica voleva distruggere i musei".

La citazione è forse un po' lunga ma penso valga la pena leggerla tutta. Credo ci sia ben poco da aggiungere a quello che dice Jean Clair. Sottoscrivo con convinzione ed entusiasmo tutte le sue tesi. Peccato che il messaggio da lui lanciato ormai parecchi anni fa, sia giunto, almeno fino ad oggi, solo in pochissime orecchie. Occorre raccoglierlo e diffonderlo. E' un compito che tutti coloro che lavorano seriamente devono assumersi, anche per una questione di sopravvivenza: è ora che l'arte torni ad essere considerata il grande mestiere che è sempre stato fino alla rottura operata dal modernismo, quel modernismo fasullo che ha dilagato ovunque fino ad imporsi su tutto.

2 commenti:

ddf ha detto...

L'amico Armando Fossati scrive:
L'opera d'arte, per essere tale, deve essere necessariamente di difficile comprensione? Perché gli artisti (o i critici) non sono capaci di spiegare l'arte senza ricorrere ad un linguaggio tecnico oscuro per la maggioranza, e comprensibile solo da parte di pochi "iniziati"? Perché non sentono il bisogno di parlare o scrivere per tutti? Nei secoli passati, per quanto mi risulta, non c'era attorno all'artista un'atmosfera di entusiasmo, dovuta proprio al consenso del popolo, o almeno all'ammirazione dell'opinione pubblica, che riusciva ad apprezzare meglio le opere d'arte?
Armando Fossati

ddf ha detto...

Cesare Simonetti mi ha scritto:
"Anche io condivido cio' che dice Jean Clair....lo condivido da lungo tempo.... e Dionisio Difrancescantonio qualcosa ne sa di certo, se ricorda quando,a casa sua, ammirando tanti suoi dipinti e disegni, ne pretesi alcuni. Oggi il "mercato dell'arte" e' piu' che mai un suk, e non perche' manchino bravi o bravissimi o eccellenti artisti anche al giorno d'oggi, ma perche' dei meri truffatori, dei furbi d'accordo con cosidetti "critici", vengono spacciati per artisti tout court o magari grandi, grandissimi artisti. E neppure i grandissimi sono esenti da speculazioni di livello veramente basso, come ad esempio il grande Picasso che scarabocchiava in serie, a velocita' supersonica, delle ceramiche poi vendute a carissimo prezzo: in gergo, queste si chiamano "marchette".....Siccome non sono un pittore, non sono un critico, non sono uno specialista, e le arti di cui posso, con un certo discernimento, parlare sono la musica classica e la letteratura, per la pittura (che mi piace morbosamente e che mi dona emozioni strane e contrastanti...) ho adottato un metodo assolutamente non ortodosso, ma che a me va bene: acquisto solo quadri che "mi piacciono", che "capisco", che mi danno gioia, che mi emozionano in qualche maniera. Molti dei quadri che possiedo sono di giovanissimi pittori alle prime armi, ma non importa se diverranno famosi, mi importa poterli avere a portata di occhio e cuore, importa che possa ogni volta emozionamarmi, guardandoli.
Quanto ai critici famosi lasciamoli alla loro spocchia, alla loro supponenza: la beffa del falso Modigliani di Livorno (semplicemente epica!!!) ha messo a nudo la loro inanita' e la loro presuntuosa superbia, coprendoli di ridicolo, ad iniziare dal superfamoso Professore Carlo Argan di Roma, vero vate ed icona della sinistra "intelligente" ed antropologicamente superiore....
E' importante sapere ragionevolmente rifiutarsi al conformismo pseudo culturale e imparare e pensare con il proprio cervello. Ne guadagnerebbe la nostra dignità, il nostro portafogli e...l'Arte, questa grande dimenticata.
Cesare Simonetti