Voli concitati, furibondo sbattere d’ali, strida clamorose e sguaiate: nel lucente mattino, i gabbiani si contendono aspramente i rifiuti buttati fuoribordo. La gazzarra dei loro voli accompagna il lento approssimarsi della nave alla rocca argentea levatasi dalle brume notturne per attrarre la nostra navigazione. Un’emozione intensa ha percosso per un lungo istante il cuore di ognuno di noi: sembrava a tutti d’aver raggiunto la patria, l’isola da tanto tempo agognata. Ma poi ci siamo resi conto che non era possibile: era troppo presto, gli ultimi giorni di tempo sereno e di vento favorevole non potevano averci già concesso di colmare la distanza che sappiamo essere ancora estesa fino alla terra dei nostri padri. Nondimeno, quella roccia abbagliante, quelle rupi impennate sul mare a disegnare profondi anfiteatri, ai cui piedi la risacca percuote lembi di candida rena ove gli uccelli marini eseguono le loro pantomime d’amore, e quelle ampie fenditure lungo il dirupo dentro cui il volatile trova riparo accanto alla vipera, e l’agave spinosa e l’ulivo contorto abbarbicati alla roccia a specchiarsi nell’abisso – tutto, tutto qui è così simile all’isola che ci ha visto nascere e crescere, e lusinga a tal punto il nostro desiderio della patria, che non sappiamo resistere all’impulso di porre la nave all’ombra dei suoi scoscesi picchi, di poggiare i piedi sul candore familiare del suo calcareo suolo.
L’inverecondo schiamazzo degli uccelli si allontana, mentre avvistiamo un approdo in una larga insenatura della roccia, dove il declivio addolcisce la sua china frantumandosi in una quantità di scogli piatti e tondi e spingendone alcuni molto avanti nell’acqua, a contenere e disperdere l’instancabile energia del mare. Ammainata rapidamente la vela, guidata la barca oltre gli scogli per metà sommersi dal mare, ci troviamo in una piccola rada dalle acque placide, quasi uno specchio lacustre, accecato dal bianco riflesso delle rocce sovrastanti. Accostiamo lo scoglio più basso, più agevole all’attracco, e uno di noi, saltando fuoribordo, corre ad ormeggiare la gomena alla roccia. Ma, giunto alfine il momento di metter piede a terra, i compagni esitano, riluttano: i loro gesti svogliati, gli sguardi preoccupati, fissi a scrutar nei recessi del sito sconosciuto, mi avvisano del timore che appesantisce i cuori sul punto di inoltrare il passo nell’approdo appena guadagnato. Come biasimarli? Non possiamo sapere se non ci attendano in questo luogo pericoli soverchi, cimenti che potremmo non essere in grado di sostenere. Quante altre volte abbiamo dovuto subire l’ostilità di genti inospitali? Non li disapprovo certo, anzi segretamente gioisco della loro apprensione, giacché desidero prender contatto da solo con l’isola che tanto mi ricorda la mia. Esprimo ai compagni il proposito di andare avanti ad esplorare il terreno. Se non avvertirò minacce, li inviterò a seguirmi, altrimenti sarà almeno uno solo ad esporsi. Nessuno si oppone alla mia proposta; d’altronde il comandante son io, mia è la responsabilità dell’incolumità di ognuno, e spetta a me assumere il rischio maggiore.
Mi inerpico di balza in balza, intento alla malìa che il contatto con questa roccia aspra mi infonde, quasi per un’attrazione carnale. Mi pervade un’eccitazione singolare, una gioia, un tripudio dei sensi in cui l’immaginazione si esalta. Un’onda di sensazioni antiche mi assedia: l’odore salso del mare frammisto al fluido resinoso del pino; l’improvviso lampo verde del ramarro nel barbaglio della roccia; lo strepito incessante delle cicale trafitto dal grido bizzoso del nibbio; la gioia di balzare tra aeree rupi con l’azzurro del cielo sul capo e l’azzurro del mare sotto i piedi. Mi sorprende, come una vertigine, la certezza d’aver già vissuto questo momento: d’aver già calcato il piede, esattamente come adesso, su questa roccia abbagliante avendo sotto di me, a precipizio, la fresca trasparenza del mare. Non ho bisogno di pensare d’aver sperimentato un istante simile in un’altra vita, come talora mi accade in questi casi: so che l’impressione mi nasce dal ripetersi di circostanze conosciute molto tempo fa, sulla mia isola. Quante volte da ragazzo ho percorso la costa saltando precipite rocce sul mare con questi medesimi colori nell’aria, con questi stessi suoni, e l’immagine di un giorno simile a questo negli occhi? Ma tutto è talmente remoto da sembrare davvero parte di un’altra vita, frutto di una mia identità dimenticata.
Vedo ancora la nave, da quassù. La sua ombra si riflette sul fondo del mare. L’acqua è tersa come un cristallo e mostra tutti i suoi segreti allo stesso modo di uno scrigno aperto. Posso vedere i suoi fiori e le sue alghe e il loro lieve ondeggiare nella corrente. Vedo anche i pesci nuotare, totani anguille e sciami di alici scure, e un gigantesco polipo solitario arrancare sul fondo. I compagni volgono il capo in alto ansiosamente, attendendo un mio richiamo, una mia rassicurante esortazione a seguirmi. Ma, pur così contigui alla mia vista, li sento lontani, estranei al mio cuore. La mia anima è altrove; soggiorno in un altro tempo, riassaporo tutto ciò che ho perduto. Sono venuto quassù per ricreare mentalmente la mia isola, per ritrovare il tempo in cui ignoravo la mia felicità. Mi afferro con la mano a un ramo di ulivo e scompaio oltre la sommità di una vetta. D’incanto mi trovo immerso nella palpitante penombra di un bosco di pini e di olivi. Il vento scuote vigorosamente le chiome degli alberi e, in improvvise scorrerie tra i rami, il sole accende le foglie, facendole squillare come campanule d’argento. Crepitano sommessamente ai miei piedi gli aghi di pino. Sfioro con tenere dita pensose i tronchi degli alberi. Il luogo evoca in me un brulichio di ricordi. La figura della mia sposa, giovinetta come al tempo in cui eravamo promessi, mi appare, incedente tra i pini e gli olivi del bosco in cui avvenivano i nostri convegni d’amore: fresca come un’acqua di fonte, il passo femminilmente flessuoso nella veste svolazzante, i petali delle labbra schiusi in una promessa di dedizione, le mani dalle lunghe dita appuntite protese all’abbraccio al pari dello sguardo lucente, colmo di tenerezza ma percorso da una punta di implorazione, quasi di sgomento, come se ella già presentisse l’abbandono a cui la destinerà l’uomo sul quale riversa con tanto fervore la pienezza del suo cuore di fanciulla. Quanto commovente, come dolce e indifesa mi sembra oggi quella creatura, quella tenera femmina amorosa che si offriva a me senza riserve, con intensa eppur pudica passione! Come ho potuto trascurare un dono così prezioso, come ignorare il raro favore che la fortuna mi offriva?! Non cesso di dolermi e di rammaricarmi della mia stolidità. Oggi ella come sarà? Inutile pormi ancora questa domanda. Avrà il cuore inaridito. Sarà piena di delusione, di avversione per colui che l’ha costretta a un’esistenza tronca, privata dell’amore a cui era votata. E’ da compiangere come e più di me. Potrò, almeno, rimediare al mio errore? Sarò ancora in tempo a consolarla di quanto le ho sottratto? Spero almeno che la sorte non mi neghi quel po’ di calore che essa potrà ancora darmi, che io potrò ancora dare a lei.
Trasalgo a un improvviso trepestio nell’ombra. Lo spavento mi sottrae bruscamente al mio sognare. Ma è solo una capra selvatica, un segaligno abitante della costa che mi mostra per un istante il suo impaurito volto d’emaciato eremita, prima di lanciarsi in un precipitoso galoppo tra gli alberi del bosco. L’eco della sua fuga fornisce un indirizzo ai miei passi. Avanzo esitando nell’ombra mutevole del folto, tra ortiche e caprifogli fruscianti. Ma, dopo un breve cammino, varcato un viluppo tenace di sterpi edera e pruni abbarbicati in fitta schiera da tronco a tronco, la massa degli alberi dirada improvvisamente e un’ampia valle si offre al mio sguardo, luminosa nel sole. Il mirto e il corbezzolo la maculano, un torrente d’argento la percorre e colline turchine la cingono, in distanza. Presso il torrente una cinghialessa di dimensioni imponenti grufola nel fango e quattro cinghialetti dal manto striato le ruzzano ai fianchi, chiassosamente. Sono tornato al presente, ho riassunto bruscamente il contatto con la realtà e il senso del mio dovere. Esploro attentamente con gli occhi il terreno. Non vedo uomini, non segni della loro presenza; invece in lontananza scorgo i dorsi color miele di un branco numeroso di cervi. Il lento rotare di un falco nel cielo, intento a scrutare il terreno sottostante, mi suggerisce anche la presenza di selvaggina minuta, forse lepri, conigli, fagiani: carni prelibate per il nostro appetito mortificato dalla dieta prolungata di pesci e crostacei a cui ci siamo sottoposti ultimamente. Dunque, il sito non è abitato da uomini, almeno in questa valle presso la costa, ma soltanto da animali selvatici; sembra sicuro, propizio alla caccia; possiamo trovarvi riposo e ristoro, ritemprare le forze e riempire di carni la nave, così da riprendere il mare provvisti abbondantemente di cibo gustoso e nutriente.
Torno rapidamente sui miei passi per chiamare i compagni, affinché mi raggiungano.
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