venerdì 7 marzo 2008

Quale cultura?

Nel dibattito che si è aperto all'interno dell'area politica moderata a proposito della cultura di centro-destra fin dal lontano 1994, quando vi fu la famosa discesa in campo di Silvio Berlusconi con la nascita di un nuovo soggetto politico con vocazione di governo che si contrapponeva per la prima volta in modo netto alle sinistre politiche, si è manifestata una (invero) confusa ricerca di identità culturale che troppo spesso non ha saputo andare oltre una generica affermazione di esigenza di libertà e di pluralismo. Diciamo pure che non si è nemmeno assistito, all'interno dello schieramento politico della Casa delle Libertà, a un embrione di discussione a proposito di quale cultura dovesse proporre il centro destra in alternativa a quella della sinistra. Gli sporadici e impacciati tentativi di ricerca e prefigurazione di una identità culturale per l'area moderata non sono riusciti ad andare più in là della constatazione, del resto ovvia, che nel nostro Paese la cultura è stata egemonizzata dalla sinistra per farne lo strumento della propria affermazione politica. E qui occorre fare un rapido excursus storico per cominciare a chiarirci le idee. La figura dell'intellettuale organico all'ex Pci nacque, a suo tempo, proprio dall'esigenza di quel partito di impossessarsi di tutti i mezzi attraverso i quali la cultura si manifestava in Italia, piazzando ai posti di comando o di controllo quel genere di intellettuale arruolato alla sua ideologia politica, cresciuto in legione anzi in esercito sempre più numeroso a mano a mano che l'accesso a posizioni di privilegio e di prestigio veniva garantito solo dall'appartenenza a quell'area. Così, dal dopoguerra ad oggi, personale selezionato o convertito alla scuola del marxismo-leninismo si è venuto impossessando sempre più massicciamente dell'orientamento ideologico delle case editrici, dei giornali, delle televisioni, delle università e delle scuole (dalle materne ai licei), della produzione cinematografica e teatrale, della gestione di gallerie e istituti d'arte, imponendo ovunque il proprio criterio di selezione per stabilire ciò che era valido da ciò che non lo era ed educando ed orientando in tal modo drasticamente le coscienze. Questa situazione, in cui versa tuttora il nostro Paese, è un dato di fatto con cui il centro-destra ha dovuto fare i conti drammaticamente anche quando ha governato perché la sinistra, alimentando un'opposizione preconcetta e intollerante diffusa a tutti i livelli, non solo ha limitato e condizionato in modo pesante il governo dei moderati, ma ha soprattutto impedito ai cittadini, con la manipolazione e distorsione della verità condotta sistematicamente attraverso gli strumenti di comunicazione in sue mani, di rendersi conto degli effetti sociali e culturali che, almeno in prospettiva, e sia pure con molti aggiustamenti da apportare, l'azione di governo avrebbe creato in positivo per la loro esistenza. Qualcuno ha sottolineato (almeno questo!) che la Casa delle Libertà "manca nella comunicazione", ma, prima ancora dell'ovvia affermazione che il centro destra non può più esimersi dall'attrezzarsi adeguatamente per avviare una battaglia su tutti i fronti per contendere e riconquistare alla sinistra gli spazi culturali che essa detiene ormai da troppo tempo, è necessario fare chiarezza circa la proposta di una cultura del centro destra che sia veramente alternativa a quella del postcomunismo, cominciando una buona volta a stigmatizzare con puntualità e rigore la "qualità" del prodotto culturale ammannito per anni dalla sinistra alla coscienza degli italiani.
Ora, lo scopo della sinistra, come per tutte le ideologie politiche ispirate al bolscevismo rivoluzionario, era quello di instaurare uno stato totalitario dove la libera persona venisse sostituita dall'uomo sociale, abolendo cioè ogni differenza tra uomo e uomo, soffocando l'io unico e universale che ispira il proprio agire alla libera creatività individuale per sostituirlo con la tirannide della collettività e dell'uguaglianza assolute. In altre parole, scardinando le fondamenta stesse della civiltà di cui siamo figli, quella civiltà dell'Occidente basata sulla centralità e sulla libertà della persona umana e sulla democrazia della società degli individui, concetti ereditati dalla cultura classica greco-romana su cui si è innestato l'afflato vivificatore del Cristianesimo. Su questa strada la "politica culturale" praticata per impulso dell'ideologia marxista-leninista, mossa dalla sua radicale avversione al patrimonio culturale dell'Occidente e ovviamente al cristianesimo che ne costituisce la base etico-morale, ha letteralmente rovesciato il senso della nostra cultura. Così abbiamo assistito al travisamento e quindi alla degenerazione di tutti i principi basilari della nostra tradizione: il bello è diventato brutto e viceversa, mentre il bene e il male, nonché la verità e la menzogna, sono diventati concetti relativi o intercambiabili perché piegati e asserviti all'affermazione o alla negazione di ciò che, dal punto di vista dell'ideologia rivoluzionaria, rappresentava l'unico bene possibile, vale a dire l'affermazione del sistema collettivistico irreligioso e totalitario. Il senso di ciò che guidava il nostro agire, tra cui fare arte (dove la cultura di un popolo trova, nelle sue diverse applicazioni, la massima espressione della propria sensibilità e spiritualità), è stato ribaltato e snaturato: l'arte non doveva più mirare al bello e al sublime per fornire una testimonianza di ciò che più ci avvicina all'immagine del Creatore del mondo, ma esaltare tutto ciò che ci volge all'ingiù e attesta la nostra natura materiale e animale, celebrando il trionfo dell'istintualità ferina di cui si sostanzia il nostro essere e la terrestrità biologica a cui si riduce l'esistenza laddove sia negato ogni riferimento alla trascendenza. In tal modo la ragione stessa dell'arte, in tutte le discipline attraverso cui si manifesta, si è confusa perché si è offuscata o addirittura perduta la capacità di discernere tra bellezza e bruttezza, tra grandezza e pochezza e, alla fin fine, tra sublime e banale. Spezzando il filo secolare della nostra tradizione, dove la concezione estetica dell'uomo obbediva alla sua sete di armonia e di bellezza così come si riscontra nel creato, e che ha permesso all'Occidente di progredire verso conquiste spirituali, artistiche (e, per la stessa via, scientifiche) mai ottenute da altri, l'ideologia collettivistica assolutizzata si è mossa decisamente sul versante del regresso, della distruzione dell'armonia e della bellezza e, in ultima analisi, della confusione e della decadenza propugnate e vissute all'insegna del materialismo e del nichilismo etico-estetici più furibondi e protervi. Il risultato di questo processo è sotto gli occhi di tutti: la cultura, nel nostro Paese, è ormai un cadavere. Il controllo ideologico del pensiero ha banalizzato e imbruttito drasticamente ogni forma di comunicazione. La produzione poetica e narrativa è scaduta ad afasia o balbettio inconcludente e tedioso, salvo rare eccezioni costrette all'editoria o ai circoli letterari underground, come dire al silenzio. La nostra cinematografia, una volta prestigiosa benché condizionata già nell'immediato dopoguerra dalla presenza di elementi di marxismo, oggi è ridotta a sottoprodotti dilettantistici che possono incontrare il consenso solo di un pubblico imbambolato e ormai rassegnato al peggio. L'architettura e l'urbanistica, da decenni, non fanno che sconnettere, soffocare e rovinare città e borghi un tempo tra i più belli del mondo. Le arti figurative sono costrette a ricamare ghirigori nel vuoto, sempre più inutili e incomprensibili. Per non parlare del conformismo del politicamente corretto che stravolge ogni manifestazione della tradizione all'insegna del multiculturalismo e quindi della negazione dell'identità e del radicamento.
Questo, dunque, in primo luogo, deve aver presente e denunciare vigorosamente il centro-destra: che l'egemonia del pensiero unico di sinistra non ha prodotto altro, in Italia, che sottocultura e non cultura, misconoscendo e negando, e quindi depauperando e distruggendo ignominiosamente, un patrimonio culturale e identitario che figurava tra i più alti del mondo. Nell'invocare (e nell'attrezzarci per poterla realizzare) la fine del conformismo ideologico che detiene ancora il monopolio dei mezzi che educano e orientano le coscienze non avendo mai rotto col massimalismo fallace e distruttore delle proprie origini, non dobbiamo perdere di vista la necessità imprescindibile di tornare a riannodare il filo spezzato con la nostra tradizione, restituendo a tutti noi l'orgoglio, la sensibilità, il modo di intendere e di volere, in una parola la forma mentis ereditata dalla nostra identità occidentale, la sola capace di farci tornare ad attingere gli alti risultati che hanno caratterizzato per secoli la nostra storia.

Dionisio di Francescantonio (articolo apparso nel N. 17 - Aprile 2003-Settembre2004 - della rivista CERTAMEN).

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